2 POLICARPO, IGNAZIO, PIONIO, GIUSTINO, PERPETUA E FELICITA, CRISOSTOMO

S. Policarpo, vescovo di Smirne
S. Policarpo fu discepolo dell’apostolo S. Giovanni. Egli nacque verso l’anno 70 di Gesù Cristo. Dalla sua infanzia fu cristiano, e per la sua gran pietà fu caro agli apostoli suoi maestri. Scrive san Ireneo che egli ebbe la fortuna di conoscerlo nella sua gioventù, quando il santo era già molto vecchio. E dice che gli restarono impresse le sante istruzioni che il santo dava agli altri. Gli sembrava di sentire narrare dalla sua bocca i discorsi che egli aveva tenuto con S. Giovanni ed altre persone che avevano conosciuto Gesù Cristo. S. Policarpo fu fatto vescovo di Smirne dallo stesso S. Giovanni, prima che questi fosse esiliato nell’isola di Patmos. È cosa certa che le lodi date dall’apostolo nella sua Apocalisse all’angelo, ossia al vescovo di Smirne, siano state dirette a S. Policarpo con cui gli disse Gesù Cristo: “Conosco la tua tribolazione e la tua povertà, ma sei ricco. Sii dunque fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita”. Il santo resse per settanta anni la Chiesa di Smirne, con tanta lode e saggezza che egli divenne come il capo di tutti i vescovi dell’Asia, per la grande venerazione che gli portavano. Egli all’età di quasi ottanta anni andò a Roma per consigliarsi con il Papa Aniceto su alcuni punti di disciplina, e specialmente riguardo al giorno in cui si dovesse celebrare la Pasqua. La dimora di San Policarpo in Roma molto giovò ai fedeli, poiché egli confuse le nuove eresie che andavano allora serpeggiando. Un giorno, incontrandosi con lui, l’eresiarca Marcione gli domandò se lo conosceva: il santo rispose:  “Sì, ti conosco primogenito del demonio.”
Ritornato San Policarpo nell’Asia ebbe a soffrire la persecuzione che l’imperatore Marco Aurelio mosse contro la Chiesa e specialmente contro la chiesa di Smirne, dove il proconsole Stazio Quadrato usò molte crudeltà contro i cristiani. Tra le altre fece  qui divorare dalle fiere dodici fedeli condotti da Filadelfia. Dalla qual cosa animati, gli idolatri, che erano molti, chiedevano la morte dei cristiani e soprattutto di Policarpo, il quale insisteva nel dare loro coraggio, per soffrire ogni tormento ed ogni morte per Gesù Cristo. Il santo, tuttavia, nonostante quei clamori contro la sua persona, voleva restare nella città per fare la solita vita pastorale, ma importunato dai fedeli fu costretto a ritirarsi in una casa di campagna, dove quel tempo che vi dimorò lo spese tutto nel pregare giorno e notte. Ma non vi dimorò che pochi giorni, poiché fu presto preso dai soldati. Tre giorni prima di essere preso ebbe in sogno una visione, in cui gli parve di vedere che il guanciale dove teneva appoggiata la testa andava in fiamme. Dalla qual cosa egli comprese che gli aspettava un martirio di fuoco. Svegliatosi disse ai suoi fratelli che certamente egli doveva essere bruciato vivo. I soldati continuavano a cercarlo, per cui i cristiani di nuovo lo costrinsero a nascondersi in un’altra casa e il santo per compiacerli si ritirò altrove. Ma in quella casa, avendo i nemici trovato un servo, lo torturarono al punto che alla fine rivelò dove San Policarpo si era ritirato. Il santo fu avvisato di ciò ma non volle fuggire da quel luogo e disse allora: “Sia fatta la volontà di Dio”. Pieno di santo coraggio, prima si offrì a Dio quale vittima destinata ad onorarlo e lo pregò di accettare il sacrificio della sua vita e poi con giubilo egli stesso andò incontro ai ministri della giustizia che già erano venuti a catturarlo. Li fece entrare in quella casa dove diede loro una cena abbondante. Domandò che egli concedessero un po’ di tempo per raccomandarsi a Dio ed ottenutolo si mise in preghiera e vi rimase due ore. Il comandante e i soldati restarono tutti pieni di confusione nel vedere quel vescovo così venerabile, ma dovettero eseguire la loro commissione. Allo spuntare del giorno partirono e, poiché il viaggio a Smirne era lungo, posero quel santo vecchio sopra un asinello, ma per la via, incontrandosi con due ufficiali di primo grado chiamati Erode e Niceta, essi lo fecero salire sul loro cocchio. Discorrendo poi nel cocchio cercarono a tutta forza di convincerlo ad ubbidire agli imperatori. Fra le altre cose gli dissero: “Ma che male c’è nel sacrificare agli dei per salvare la vita?”. Il santo rispose con fortezza che avrebbe sofferto tutti i supplizi e la morte piuttosto che consentire a quello che gli consigliavano. Ma dopo questa risoluta risposta, quelli, sdegnati, lo trattarono da ostinato e per la rabbia lo sbalzarono dal cocchio con tanta violenza che il santo, cadendo, si ruppe l’osso della gamba. Nonostante ciò, conservando San Policarpo la sua tranquillità, andò lieto all’anfiteatro, dove doveva lasciare la vita. All’entrare in quel luogo, udì una voce del cielo che gli disse: “Coraggio, Policarpo, sta saldo”. Qui, essendosi presentato al proconsole, questi cominciò a corromperlo dicendogli: “Policarpo tu sei vecchio, bisogna che ti liberi dai tormenti che non hai la  forza di sopportare. Giura per la fortuna di Cesare e di’ con il popolo: “Siano sterminati gli empi”. Il santo subito rispose: “Sì, siano sterminati gli empi”; ma intendendo per empi gli idolatri. Il proconsole credendo con ciò di averlo guadagnato gli disse: “Orsù, a questo punto maledici  Gesù Cristo ed io ti manderò assolto”. Allora il santo, udendo ciò rispose: “Sono ottantasei anni che io servo Gesù Cristo ed egli non mi ha fatto alcun male, anzi ne ho ricevuto tanti favori. E come posso ora maledirlo? Come posso maledire il mio Creatore, il mio Salvatore, che è anche il mio giudice, il quale giustamente punisce chi lo nega?”. Continuando il tiranno ad insistere perché rinnegasse Gesù Cristo, rispose Policarpo che egli era cristiano e che stimava sua gloria dare la vita per Cristo. Il proconsole minacciò che l’avrebbe fatto sbranare dalle fiere. Il santo disse: “Falle venire presto, io non posso convertirmi dal bene al male. Queste mi gioveranno per passare dalle sofferenze alla gloria del cielo”. Quello replicò che l’avrebbe fatto bruciare vivo e il santo rispose: “Il fuoco non dura che un momento: vi è un altro fuoco eterno e questo io temo. Perché tardi ad eseguire il tuo proposito?”. Gli disse ciò con tanta intrepidezza che lo stesso tiranno ne restò confuso. Ma tuttavia fece gridare dal banditore che Policarpo aveva confessato con la sua bocca di essere cristiano; per cui la turba dei Gentili gridò: “Muoia questo distruttore dei nostri dei”. Ma poiché la festa era terminata e il combattimento delle fiere era finito, si decise che Policarpo, invece di essere divorato dalle fiere, fosse fatto morire nel fuoco. Subito fu preparata la catasta dagli idolatri ed anche dai Giudei che si aggiunsero a fare da carnefici. Il santo si spogliò da se stesso delle vesti e vedendo che quelli si preparavano ad inchiodarlo al palo disse: “Lasciate questi chiodi. Colui che mi dà forza di soffrire  il fuoco  mi darà anche la forza di star fermo nel fuoco senza i vostri chiodi”. Tralasciarono dunque di inchiodarlo, ma solamente gli legarono le mani dietro la schiena e lo posero sulla catasta, dove il santo alzò gli occhi al cielo. Essendosi già alzata la fiamma disse: “O Dio Onnipotente, ti ringrazio, perché mi fai partecipe della passione di Gesù Cristo, tuo Figlio, col rendermi degno di sacrificarmi in tuo onore, perché io venga a lodarti in cielo e a benedirti per tutta l’eternità”. Essendosi poi acceso il fuoco alla legna, le fiamme non toccavano il santo, ma si fece di loro un cerchio come una capanna a lui d’intorno, spirando  un soave profumo dalle sue carni. I pagani, vedendo che il fuoco lo risparmiava, sdegnati, per così dire, contro lo stesso fuoco, lo trafissero con una spada e dalle ferite uscì tanto sangue che spense il fuoco e così compì San Policarpo il suo sacrificio, come si narra nella lettera dei fedeli di Smirne inviata a tutte le chiese. Il suo martirio avvenne verso l’anno 160.

San Ignazio martire
S. Ignazio, vescovo di Antiochia, chiamato anche Teoforo, cioè portatore di Dio, visse nel primo secolo della Chiesa. Egli fu discepolo degli apostoli e specialmente di S. Giovanni. Da essi fu battezzato e poi ordinato vescovo della chiesa di Antiochia, che fu fondata e governata prima dall’apostolo San Pietro, e dove i discepoli di Gesù Cristo presero il nome di cristiani.
San Ignazio prese il governo di quella chiesa dopo la morte di San Evodio, succeduto a San Pietro e morto nell’anno 69 del Signore… Il Santo governò quella chiesa con tanto zelo che tutte le chiese della Siria ricorrevano a lui come ad un oracolo. Durante la persecuzione di Domiziano ebbe molto a patire e a faticare con grande rischio della sua vita per la conservazione della fede, dando coraggio a tutti perché non prevaricassero. Del resto sin da allora sospirava il martirio, solendo dire che non credeva di amare Gesù Cristo se non quando avesse dato per esso la vita. Morto Domiziano nell’anno 96 e succedutogli Nerva, si calmò la tempesta. Ma in questo frattempo non cessavano gli eretici di turbare la Chiesa. Per questo il santo, nella lettera che scrisse ai fedeli di Smirne, li esortò a guardarsi di parlare con loro: Contentatevi, dice, di pregare Dio per costoro, che si astengono dall’eucaristia, perché negano che vi sia in essa la carne di Gesù Cristo, che ha patito per i nostri peccati. Nell’anno 105 tornò la tempesta sotto l’imperatore Traiano, il quale avendo vinto gli Sciti e i Daci, per onorare i suoi dei, obbligò tutti con un suo editto a sacrificare in loro onore sotto pena di morte. Marciando poi egli contro i Parti e ritrovandosi in Antiochia, seppe qui con quanto zelo e frutto S. Ignazio promuoveva la religione cristiana. Per questo lo chiamò alla sua presenza e venuto gli disse: “Sei tu quel cattivo demonio chiamato Teoforo, che  prendi  piacere a violare i nostri comandi di sacrificare ai nostri dei e seduci questa città predicando la legge di Cristo?”. Rispose Ignazio: “Sì, principe, io mi chiamo Teoforo, ma da nessuno Teoforo può essere chiamato demonio, perché i demoni vanno lontano dai servi di Dio. Se mi chiami demonio, perché ad essi io sono molesto con il dissipare le loro insidie, ben merito tale nome”. Traiano lo interrogò che cosa significasse il nome di Teoforo. Rispose: “Significa portatore di Dio”. Replicò Traiano: “Tu porti Dio nel cuore? E non abbiamo in noi anche gli dei che ci aiutano?”. Allora Ignazio con santo ardire disse: “E’ un errore, o principe, dare il nome di dei ai demoni che voi altri adorate; uno è il vero e solo Dio: creatore del cielo e della terra e non vi è che un solo Gesù Cristo, unico suo Figlio. L’imperatore riprese: “Parli tu di colui che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato?”. E il santo replicò: “Sì, parlo di colui che ha condannato la malizia dei demoni a stare sotto i piedi dei cristiani, che portano Gesù nel cuore.” E poi gli disse che egli sarebbe stato molto felice e felice il suo regno se avesse creduto in Gesù Cristo. Ma l’imperatore riguardo a ciò non gli diede ascolto e promise di farlo sacerdote di Giove e padre del Senato se avesse sacrificato ai suoi dei. Il santo rispose che gli bastava essere sacerdote di Gesù Cristo, per cui anelava di spargere il sangue. Allora Traiano sdegnato pronunciò la sentenza che Ignazio fosse condotto incatenato dai soldati a Roma, per essere pasto delle fiere e servire di spettacolo al popolo.
S. Ignazio, sentita la sentenza, alzando gli occhi al cielo disse: Ti ringrazio, Signore, che ti sei degnato di farmi degno di darti una prova del mio amore, sacrificandoti la mia vita. E perciò desidero che presto vengano le fiere a sbranarmi e così ti offra il sacrificio di tutto me stesso. Poi presentò le mani per essere incatenato e in ginocchio baciò le catene e lieto se le cinse. Raccomandò poi a Dio con lacrime la Chiesa e subito fu consegnato ai soldati; ed andò a Seleucia con due suoi diaconi, Filone ed Adatopode, i quali poi si crede abbiano scritto gli atti del suo martirio. Da Seleucia passò a Smirne. Ovunque il santo passava non smetteva di confortare i fedeli a perseverare nella fede e nella preghiera, ad amare i beni del cielo e a disprezzare quelli della terra. I cristiani in folla gli andavano incontro, per riceverne la benedizione; specialmente i vescovi e i presbiteri delle chiese dell’Asia venivano insieme a salutarlo e nel vederlo andare così allegro alla morte piangevano per tenerezza. Giunto a Smirne, si abbracciò con San Policarpo con vicendevole consolazione. Di là scrisse tre lettere alle chiese di Efeso, di Magnesia, di Tralli, piene di Santo Spirito. Scrisse fra le altre cose agli Efesini: “Io per Gesù Cristo porto le mie catene, che sono per me perle spirituali, di cui faccio più conto  di tutti i tesori del mondo.”
Sapendo poi che da Smirne dovevano andare a Roma alcuni di Efeso, per via più corta della sua, scrisse per essi la lettera, che  è la più celebre, ai fedeli romani.
La lettera è lunga; io ne trascrivo qui le cose più rilevanti in succinto. Scrisse loro così: “Lasciatemi esser cibo delle fiere, e per loro mezzo  giungere al possesso del mio Signore. Sono strumento di Dio, devo essere macinato dai denti delle fiere, per essere un pane puro di Cristo. Goda io delle bestie, e desideri trovarle pronte a divorarmi. Io stesso le alletterò, affinché presto lo facciano, né mi rispettino, come hanno fatto con altri martiri. Quando esse non volessero venire, io le costringerò a sbranarmi. Perdonatemi, figli miei, io ben so quello che mi giova. Ora comincio ad essere discepolo di Cristo, mentre nulla desidero delle cose visibili, per ritrovare Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le fiere, lo spezzamento delle ossa, la divisione delle membra, lo sbranamento del corpo, e tutti i tormenti inventati dal demonio vengano sopra di me, purché io mi unisca con Gesù Cristo. Meglio è per me morire per Gesù Cristo, che essere re di tutto il mondo. Perdonatemi, fratelli; non  impeditemi di giungere alla vita, e non  opponetevi alla mia morte. Lasciatemi imitare la passione del mio Dio. Non  invidiatemi la mia buona sorte. E se quando sarò da voi, io vi parlassi altrimenti, non mi ascoltate, ma attenetevi a quello che ora vi scrivo. Ogni mio amore (eros, passione ) è stato crocifisso, non mi curo di alcun cibo corruttibile; desidero il pane della vita che è la carne di Gesù Cristo e la bevanda del suo sangue. Se consumerò il mio sacrificio sarà segno che voi l’avete voluto e che veramente mi amate.”
Giunse poi a Troade, dove scrisse altre lettere a Filadelfia, a Smirne, ed un’altra al suo amico Policarpo, a cui raccomandò la chiesa di Antiochia. Temendo i soldati di giungere a Roma troppo tardi, dal momento che i giochi pubblici stavano per finire, affrettarono il cammino; per altro con piacere del santo, che anelava arrivare presto al suo supplizio. Giunti che furono in Roma, i cristiani vennero in folla ad incontrarlo e a salutarlo. Pensavano essi di indurre il popolo a non chiedere la sua morte; ma il santo rispose loro ciò che aveva scritto prima nella sua lettera e li quietò.. Entrato in Roma si inginocchiò con gli altri cristiani, offrendosi a Dio per quel suo prossimo sacrificio, e pregò per la pace della Chiesa. Subito fu condotto nell’anfiteatro, ove erano accorsi innumerevoli Gentili. Udendo egli i ruggiti delle fiere replicò quelle parole: “Sono frumento di Dio, devo essere macinato dai denti delle bestie, per essere offerto come pane puro a Gesù Cristo”. Il santo in un momento fu divorato dai leoni, come  già aveva desiderato e qui allora, mentre spirava, fu inteso pronunciare il santo nome di Gesù. Altro non restò del suo corpo che le ossa più dure, le quali furono prese dai suoi due diaconi e trasportate in Antiochia. Nella notte seguente apparve loro sant’Ignazio risplendente in una grande luce. Il suo martirio avvenne il 20 dicembre dell’anno 107. Essendo poi stata Antiochia distrutta dai Saraceni, le reliquie del santo furono portate a Roma nella chiesa di San Clemente, ove ora si venerano con grande devozione. Gli atti del martirio di Sant’Ignazio sono riportati dal Ruinart nella sua raccolta degli Atti sinceri dei martiri.

San Pionio
San Pionio fu prete della Chiesa di Smirne. Egli fu molto dotto ed ardeva di un grande amore verso Gesù Cristo. Per lo zelo che aveva della sua gloria si impiegò nell’acquisto delle anime ed ebbe la sorte di convertire molti infedeli e di ritrarre molti peccatori dalla loro malvagia vita. Ardeva in quel tempo, verso l’anno 250, la persecuzione contro i cristiani, sotto l’impero di Decio. Il santo stava in continua preghiera preparandosi al martirio nel caso che fosse preso dagli idolatri. Un giorno, mentre esso pregava con Asclepiade, uomo molto devoto e con un’altra donna chiamata Sabina pure devota, gli fu rivelato che il giorno seguente tutti e tre sarebbero stati arrestati a motivo della fede. Tutti e tre allora offrirono di buon animo le loro vite a Gesù Cristo e si posero una fune al collo per fare intendere ai soldati che sarebbero venuti a prenderli che essi erano pronti al martirio. Ed ecco che la mattina seguente venne un certo Palemone, il quale soprintendeva alla custodia dei templi, con molti soldati e disse loro: “Sapete voi dell’ordine del principe  di sacrificare tutti agli dei dell’impero?”. Rispose San Pionio: “Quel che sappiamo noi è l’ordine di Dio, di non sacrificare ad altri che ad esso, unico Signore del tutto”. Detto ciò, furono imprigionati e condotti alla piazza, dove giunto San Pionio, rivolto ai nemici della fede… manifestò che esso non avrebbe mai, per qualunque tormento, adorato i loro idoli che empiamente chiamavano dei. Palemone gli disse: “Perché vuoi, Pionio, privarti della vita presente e della bellezza della luce nei giorni che godi?”. Rispose il santo: è bella questa luce, ma vi è una luce più bella e una vita più amabile alla quale aspirano i cristiani”. Il popolo insisteva che sacrificasse ed egli rispose: “Il nostro proposito è di vivere nella nostra fede, ed in questo vogliamo perseverare”. Il popolo desiderava che il santo parlasse nel teatro per poterlo udire più comodamente, ma alcuni dissero a Palemone che se gli dava libertà di parlare sarebbe forse  nata qualche sollevazione nel popolo. Pertanto quegli disse a Pionio: “Se ti rifiuti di sacrificare, vieni almeno con noi nel tempio”. Replicò il santo: “Non torna conto ai vostri dei che noi entriamo nei vostri templi”. Dunque, ripigliò Palemone, non vuoi lasciarti persuadere?. E Pionio: “Piacesse a Dio che avessi io potuto persuadere voi a essere cristiani!”. Risposero alcuni idolatri: “Non potresti costringerci a questo anche se fossimo bruciati vivi”. E il santo disse: “Ma peggio sarà bruciare nel fuoco dopo morte, per sempre”. Palemone desiderava salvare la vita a Pionio, per questo non cessava di esortarlo a sacrificare. Ma il santo risolutamente gli rispose: “Tu hai ordine o di persuadere me o di punirmi; giacché non puoi persuadermi devi punirmi”. Sdegnato allora Palemone gli disse: “Ma perché non vuoi sacrificare?”. E Pionio: “Perché sono cristiano”. Quegli lo interrogò: “E qual è il Dio che tu adori?”. E il santo: “Adoro il Dio onnipotente, che ha creato il tutto e noi, come ho imparato da Gesù Cristo”. Sacrifica almeno all’imperatore, aggiunse Palemone. E il Santo: “Non sia mai vero che io sacrifichi ad un uomo”. Il giudice allora gli chiese giuridicamente come si chiamasse e di quale chiesa fosse. Il santo rispose: “Mi chiamo cristiano, e sono della Chiesa cattolica”. E lo stesso risposero gli altri suoi tre compagni, che furono poi tutti mandati in prigione. Mentre andavano, alcuni dissero che molti cristiani avevano idolatrato e il santo rispose: “Ognuno è padrone della propria volontà: io mi chiamo Pionio”. Volendo con ciò dar coraggio agli altri ad imitarlo nel conservarsi costanti nella fede. Giunti che furono al carcere, molti cristiani gli fornirono qualunque ristoro e rinfresco che desiderasse, ma il santo ricusò tutto dicendo: “Io ora ad altro non penso che al martirio che mi aspetta”. Le guardie vedendo tanti cristiani che venivano a visitare san Pionio lo trasportarono con i suoi compagni in un luogo più sicuro e più nascosto. I santi ringraziarono Dio per questo, perché qui potevano trattenersi con Dio più familiarmente, dal momento che stavano più soli. Ma con tutto ciò andarono a trovarlo più cristiani, che per la violenza dei tormenti avevano rinnegato. Il santo pianse la loro caduta e li esortò a fare penitenza e a sperare il perdono della pietà di Gesù Cristo. Sopraggiunse  quindi Palemone con una truppa di soldati, con ordine del proconsole di condurre Pionio e i compagni ad Efeso. Il santo chiese di vedere un tale ordine ma un ufficiale, che presiedeva alla truppa, gli gettò una fune al collo e lo strinse talmente che quasi lo soffocò. Poi il santo fu trascinato in piazza con quella stessa corda che gli impediva il respiro. Giunti che furono i santi martiri al tempio, si gettarono a terra per non entrarvi, ma i soldati con la violenza li trascinarono dentro quello e li posero ai piedi dell’altare sacrilego. Qui si trovava Eudemone, vescovo di Smirne, il quale miseramente aveva sacrificato agli dei e speravano che l’esempio di quell’infelice li muovesse a rinnegare. Vi fu anche uno che volle mettere sul capo di san Pionio una corona di quelle che portavano coloro che sacrificavano; ma il santo la fece a pezzi e la gettò. Non sapendo più cosa fare per convincerli, di nuovo li richiusero in prigione. Mentre stava Pionio per entrarvi, un soldato gli diede una grande botta in testa. Il santo la sopportò con grande pazienza, ma Dio castigò subito il percussore con il fargli infiammare e gonfiare la mano ed i fianchi, in modo che non poteva respirare. Dopo alcuni giorni, il proconsole venuto a Smirne e fattosi presentare san Pionio, gli chiese di quale setta fosse. Il santo rispose: “Sono prete della Chiesa cattolica”. Quello replicò: “Dunque tu eserciti l’ufficio di dottore e sei maestro di stoltezza?”. E il santo: “No, ma della pietà”. E di quale pietà? “Di quella pietà che ha per oggetto il dio che ha fatto il cielo e la terra. Il proconsole gli disse: sacrifica! Rispose il Santo: “Io ho imparato ad adorare un solo Dio vivente”. Il tiranno comandò allora che fosse posto alla tortura ed in quella continuava a esortarlo a sacrificare come, diceva, avevano fatto molti cristiani. Dopo avergli ripetuto ciò più volte lo condannò a morire nel fuoco. Andando san Pionio al luogo del supplizio, camminava con fretta e con faccia serena. Giunto qui, da se stesso si spogliò delle vesti e da sé si adattò al palo per esservi inchiodato. Allora gli fu detto da dei pagani: “Pentiti, Pionio, prometti di ubbidire e sarai schiodato”. Egli rispose: “Io ho già sentito il dolore dei chiodi; io desidero morire, perché il popolo conosca che un giorno alla morte dovrà succedere la resurrezione”. Dato già fuoco alla legna, il santo chiuse gli occhi, per cui il popolo credette che fosse già morto; ma il santo pregava. Terminata la preghiera, aprendo gli occhi disse amen, e quindi con faccia allegra spirò, dicendo: “Ricevi, Signore il mio spirito”. Di certo non si conosce la fine dei suoi compagni, ma si deve credere che anch’essi consumarono in pace il loro martirio.

San Giustino
San Giustino fu un santo molto glorioso nella Chiesa. Egli con dotte scritture la difese contro i Gentili, contro i Giudei e contro gli eretici. Inoltre presentò agli imperatori e al Senato Romano due famose apologie, dove dimostrò l’innocenza dei cristiani e che tutti i delitti che imputavano a loro i pagani erano pure calunnie. Di più con la sua santa vita e con le sue istruzioni convertì molti infedeli e alla fine coronò i suoi giorni con un generoso martirio. Giustino nacque all’inizio del secondo secolo in Neapoli, capitale della Samaria, da genitori greci e idolatri. Egli, dopo i primi studi delle lettere umane, si sentì ardentemente ispirato a conoscere il sommo bene. Cercò di indagare questa verità prima dagli stoici, poi dai peripatetici, poi dai pitagorici, e alla fine dai platonici, ma nessuno lo soddisfece. Iddio, ciò nonostante, lo accontentò in modo prodigioso. Essendo egli andato un giorno in un luogo solitario per fare le sue meditazioni con maggior quiete, si incontrò qui con un vecchio venerabile, il quale gli disse che se voleva raggiungere la vera conoscenza di Dio doveva lasciare i filosofi e cominciare a leggere i profeti, che nelle divine scritture hanno rivelato agli uomini i misteri di Dio, ed annunziato Gesù Cristo, suo Figlio, in virtù del quale unicamente si può giungere a conoscere il vero Dio. Ma prima di tutto, aggiunse il vecchio, devi pregare il Signore che ti illumini, poiché tali cose non si possono comprendere se non da coloro ai quali Dio ne dona l’intelligenza. E, dette queste parole, disparve dai suoi occhi. Dopo questo discorso, San Giustino si applicò tutto alla lettura delle Sacre Scritture, da cui ricavò poi quelle sante conoscenze che gli fecero abbracciare la fede e ricevere il battesimo circa l’anno 133, all’età di anni trenta. E confessava aver molto contribuito a questa decisione il vedere la costanza dei martiri, che nei tormenti erano così forti a dare la vita per Gesù Cristo. Da quel tempo pertanto si consacrò tutto all’amore del crocifisso ed al bene della religione. Prese il sacerdozio e si impegnò da allora in poi a convertire gli infedeli e gli eretici, considerandosi un eletto da Dio a difendere la sua Chiesa. Per questo diceva: “Avendo io ottenuto da Dio la grazia di comprendere le Scritture, mi adopero per farle comprendere anche agli altri, per timore di essere condannato nel giudizio divino, se in ciò vengo meno. E sono disposto, dice in un altro luogo, di manifestare la verità anche se dovessi essere fatto a pezzi. Essendosi poi portato a Roma, qui gli riuscì di ammaestrare molta gente nei dogmi della fede e qui compose e presentò, circa nell’anno 150, all’imperatore Antonino Pio e al Senato la sua prima apologia, dove dimostrò la santità della religione e le virtù che praticavano i cristiani, aggiungendo che più persone sino all’età di 60 e 70 anni avevano conservato il celibato. Noi, diceva, o non abbracciamo il matrimonio, se non per avere figli o viviamo in perpetua continenza. Aggiungeva che l’unica speranza dei cristiani era la vita eterna che aspettavano per la morte di Gesù Cristo. Parlando poi della verità della fede cristiana, riportava le profezie, che tanti secoli prima avevano predetto le cose credute dai fedeli: profezie scritte negli stessi libri conservati dai Giudei nemici dei cristiani. Noi vediamo, diceva il santo, avverate ai tempi nostri queste profezie con la nascita di Gesù Cristo da una vergine, con la predicazione del medesimo, con i suoi miracoli, con la sua passione, risurrezione ed ascensione al cielo, con la riprovazione dei Giudei, la distruzione di Gerusalemme, la conversione dei Gentili e con lo stabilirsi  della Chiesa in tutto il mondo. Queste profezie, aggiungeva il santo, avveratesi in modo così perfetto, ci convincono che Gesù Cristo è vero figlio di Dio, che un giorno deve venire a giudicare tutti gli uomini, come era predetto e come noi crediamo. Inoltre benché la Chiesa in quei tempi tenesse nascosti ai Gentili i sacrosanti suoi misteri, nondimeno San Giustino credé allora di spiegarli per togliere gli iniqui sospetti con cui si tacciavano i cristiani di incesti nascosti e di infanticidi. Perciò, dopo aver spiegato la sacra cerimonia del battesimo, spiega il mistero e il sacramento dell’eucarestia e scrive così: “Poi a colui che presiede all’assemblea viene presentato del pane ed un calice di vino e di acqua, ed egli nel nome del Figlio e dello Spirito Santo rende gloria al Padre. E per tali doni rende le grazie che da tutto il popolo sono ratificate con la parola amen. Terminate così le preghiere, le lodi, le azioni di grazie, i diaconi prendono il pane e il vino mescolato con l’acqua, sopra cui furono recitate tutte quelle sante preghiere e dopo che li hanno distribuiti ai presenti li portano anche agli assenti. Questo alimento è chiamato da noi eucaristia, di cui nessuno può partecipare che non creda nella nostra dottrina e non sia lavato dai peccati e rigenerato in quel lavacro celeste. Non è questo un pane, né una bevanda comune; ma siccome in virtù della divina Parola, Gesù Cristo, nostro Salvatore, fu composto di sangue e carne per la nostra salvezza, così quell’alimento di cui siamo nutriti, sappiamo che in virtù della preghiera contenente le sue divine parole è la carne e il sangue dello stesso Verbo incarnato. Ecco che al presente si crede nella Chiesa cattolica quello stesso che fu osservato e creduto sin dai tempi apostolici nei quali viveva san Giustino. Poi espone san Giustino come si facevano dai fedeli nei giorni di feste le sacre adunanze e scrive: “Così pure nel primo giorno della settimana, detto del sole, così chiamavano i pagani il giorno della domenica, si fa una generale adunanza nello stesso luogo e, secondo che il tempo lo permette, si leggono gli scritti dei profeti ed i commentari degli apostoli. Terminata poi dal lettore la lettura, colui che presiede fa una esortazione al popolo, per eccitarlo ad imitare cose così degne. Quindi tutti insieme ci alziamo, e ci mettiamo in preghiera. Finita la quale, si presenta, come si è detto sopra, il pane, il vino, e l’acqua, sopra i quali il vescovo o sacerdote recita le preghiere e i  rendimenti di grazie, e il popolo risponde amen. Finalmente si fa per i diaconi la distribuzione dei doni consacrati. I più ricchi fanno liberamente una certa offerta, che è distribuita da colui che presiede a vedove, piccoli, infermi, carcerati, pellegrini o altri bisognosi. Il motivo per cui ci raduniamo nel giorno del sole è perché questo fu il primo giorno in cui Dio creò il mondo ed in esso Gesù Cristo nostro Salvatore risorse da morte a vita.” Si crede che questa apologia di San Giustino,  se non fece affatto cessare la persecuzione, almeno la rallentò nell’animo dell’imperatore Antonino, come si argomenta da una sua lettera che scrisse poco dopo in favore dei cristiani alle città dell’Asia minore, riferita da Eusebio di Cesarea. Intanto il santo compose più opere per il bene della religione contro i marcioniti, contro i valentiniani e contro il giudeo Trifone, in riprovazione della perfidia dei Giudei. Essendo poi succeduto nell’impero Marco Aurelio ad Antonino, si riaccese la persecuzione. Un certo filosofastro gridava più forte in Roma contro i cristiani: si chiamava esso Crescente, della setta dei cinici. A costui si oppose San Giustino il quale più volte lo convinse in pubbliche dispute di somma malizia e di somma ignoranza delle cose dei cristiani. Quindi pubblicò una seconda apologia e la presentò all’imperatore, dove specialmente difende la religione contro le calunnie di Crescente e di altri filosofi che la perseguitavano. In questa seconda apologia egli narra un fatto allora avvenuto di una certa donna incontinente che aveva un marito pure incontinente. La donna, essendosi fatta cristiana, fece quanto poté per ritrarre il marito dai peccati. Quegli però, invece di emendarsi, l’accusò al prefetto come cristiana e poiché era stata essa convertita da un certo Tolomeo, accusò anche lui. Questi, avendo confessato di essere cristiano dinanzi al prefetto, fu condannato a morte. A queste inique sentenze si trovò presente un altro cristiano di nome Lucio, il quale disse al prefetto Urbico: “Con quale coscienza, o Urbico, condanni un uomo che non è reo di altro delitto che di essere cristiano? Allora il prefetto, comprendendo che Lucio pure era cristiano, lo condannò allo stesso supplizio. Venne un terzo cristiano e anche quello fu condannato a morte. Poco tempo dopo fu arrestato anche San Giustino con sei altri cristiani di sua compagnia. Presentato che fu il santo al prefetto di Roma di nome Rustico, fu da quello esortato ad ubbidire agli editti imperiali. Il santo rispose che non può essere ripreso né condannato chi obbedisce ai precetti di Gesù Cristo nostro Salvatore. Il prefetto poi gli chiese a quale genere di erudizione si era egli applicato. Il santo disse che prima aveva cercato di sapere le dottrine di varie sette, ma finalmente aveva abbracciato quella dei cristiani, benché essa non piacesse a coloro che sono sedotti dagli errori delle false opinioni. Tu dunque, infelicissimo, soggiunse il prefetto, ti diletti di questa sorta di erudizione? Replicò Giustino: “Sì, ed io la seguo con la sua retta dottrina”. E qual è questa dottrina? Domandò quello. E il Santo: “La retta dottrina che noi seguiamo consiste nel credere in un solo Dio, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili e nel confessare Gesù Cristo figlio di Dio, annunciato già dai profeti, portatore della salvezza agli uomini, e maestro di coloro che, per loro buona sorte, seguono i suoi divini precetti. Ma né la mia mente è abile a concepire né la mia lingua a proferire alcuna cosa che sia degna della sua infinita dignità. Per fare ciò c’è bisogno della mente e dello spirito dei profeti, che da Dio ispirati predissero la sua venuta nel mondo”. Passò poi il prefetto a domandargli ove fossero soliti radunarsi i cristiani. E Giustino: “Si raduna  ciascuno dove vuole e dove può”. Credi tu forse che tutti ci raduniamo in uno stesso luogo? Il Dio dei cristiani non è circoscritto da luogo, Egli è invisibile; per questo riempie il cielo e la terra ed in ogni luogo è adorato e lodato dai cristiani”. Ma io voglio sapere, replicò Rustico, dove tu e i tuoi discepoli vi radunate. Rispose il Santo: “Quanto a me io abito al bagno detto Timiotino. Questa è la seconda volta che  sono venuto a Roma e non conosco quasi altro luogo della città. Se qualcuno viene a trovarmi sono sempre pronto ad istruirlo della vera dottrina”. Dunque tu sei cristiano? Concluse il prefetto. E il santo: “Così è, sono cristiano”. Allora il prefetto si rivolse agli altri compagni di san Giustino ed  interrogatili uno per uno circa la loro fede, tutti confessarono di essere cristiani e di essere pronti a morire per Gesù Cristo Poi Rustico disse a Giustino: “Dimmi, tu che credi di avere la vera sapienza: se dopo una dura flagellazione ti sarà tagliata la testa, sei persuaso di salire in cielo?”. E il santo rispose: “Spero che soffrendo questi supplizi conseguirò quel premio che è preparato a coloro che osservano i precetti di Cristo”. Il prefetto replicò: “Tu, dunque, pensi di salire in cielo?”. E il santo disse: non ne ho opinione, ma sicura conoscenza che esclude ogni dubbio”. Alla fine, rivolto il prefetto a tutti quei confessori di Gesù Cristo, disse loro: “Suvvia , unitevi insieme e sacrificate agli dei”. Rispose per tutti Giustino: “Nessuno uomo di mente sana abbandona la pietà per precipitare nell’empietà”. Ma, riprende Rustico, se voi non ubbidirete, sarete tormentati senza pietà. E san Giustino: “Questo appunto è quello che ardentemente desideriamo, di soffrire tormenti per amore di Gesù Cristo e così ottenere la salvezza. In questo modo ci presenteremo con faccia allegra al tribunale dello stesso nostro Salvatore, davanti al quale tutto il mondo deve necessariamente comparire”. Tutti gli altri martiri dissero la stessa cosa e aggiunsero: “Fa’ presto quanto ti piace; noi tutti siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli. Il prefetto, udite tali cose, pronunciò contro di essi questa sentenza: “Costoro, che non hanno voluto sacrificare agli dei né ubbidire alla volontà dell’imperatore, prima siano flagellati e poi sia tagliata loro la testa, come prescrivono le leggi. E così i santi martiri furono condotti al supplizio dove, dopo essere stati flagellati, furono decapitati e gloriosamente ricevettero la corona del martirio nell’anno 166 o nel seguente. I loro corpi furono presi di nascosto da alcuni fedeli e sepolti in luogo decente.

Santa Perpetua e Santa Felicita
Sant’Agostino fece grandi elogi di queste due sante nelle sue opere e spesso le proponeva al popolo per animare tutti ad essere fedeli a Gesù Cristo. L’imperatore Severo aveva ordinato che fossero fatti morire tutti i cristiani che ricusassero di sacrificare agli dei. Minuzio, proconsole, che comandava in Africa, fece tra gli altri  arrestare in Cartagine cinque giovani, che erano ancora catecumeni ed insieme le due sante nominate, Perpetua e Felicita, con altri due santi, Saturnino e Secondolo. Perpetua era una donna giovane di ventidue anni che conduceva una vita molto devota; essa era sposata ed aveva un solo figlio. Felicita poi era più giovane ed era pure sposata e di santi costumi.  Stando le sante martiri in una casa, custodite dai soldati, venne il padre di Perpetua a visitarla e poiché era pagano si adoperò in tutti i modi e persino con le lacrime per convincerla ad abbandonare la fede. Qui giova sapere che la stessa santa Perpetua  il giorno prima della sua morte scrisse la storia del suo martirio, come si trova negli atti antichi, dove sta estesa a lungo; noi qui ne descriveremo le cose più essenziali: “Mio padre (sono le parole scritte dalla santa) adoperò tutte le arti per dissuadermi; io gli risposi risolutamente: Padre mio, io sono cristiana. Egli allora tutto sdegnato si avventò per cavarmi gli occhi e mi caricò di mille ingiurie. Pochi giorni dopo ricevemmo tutti il santo battesimo e poi fummo posti in prigione, dove io restai spaventata dall’oscurità, dalla puzza e dal calore che vi era a motivo dei molti carcerati che ivi si trovavano. Ottenni qui la grazia di avere con me il mio figliolo e ciò mi consolò. Venne a trovarmi in questo luogo mio fratello e mi disse che  pregassi il Signore perché mi facesse conoscere se mi aspettava il martirio. Io mi misi a pregare e mi fu data a vedere una scala d’oro che si stendeva al cielo, ma molto stretta e ai lati essa era piena di rasoi e di punte di ferro. Ai piedi della scala vi era poi un dragone, che minacciava di ingoiare chiunque volesse salirvi. Il primo che vi salì fu un certo cristiano di nome Saturo, che mi invitò a salire. Io andai e mi trovai in alto  in un grande giardino nel quale incontrai un uomo di bell’aspetto che mi disse: “Sii tu benvenuta, figliola mia”. E dopo tale visione conobbi che noi tutti eravamo destinati al martirio e lo dissi a mio fratello.
Mio padre venne a trovarmi anche in prigione e struggendosi in lacrime, buttato ai miei piedi mi disse: Figlia, abbi compassione di me, povero vecchio, che sono tuo padre; almeno abbi pietà di tuo figlio; non essere la causa con la tua ostinazione della rovina di tutti noi. Io mi intenerii, ma restai forte nel mio proposito. Il giorno seguente fui presentata all’esaminatore Ilarione il quale, essendo morto il proconsole, faceva da giudice. Con me si presentò anche mio padre con il mio figlio in braccio e il giudice mi disse: “Perpetua abbi pietà di tuo padre e di tuo figlio e sacrifica agli dei”. Io risposi che ero cristiana e che tutti noi altri eravamo pronti a morire per la nostra fede”. Il giudice allora ci condannò tutti a morire sbranati dalle fiere; ma noi con gioia accettammo la sentenza, e fummo ricondotti in prigione dove di nuovo venne mio padre e, strappandosi la barba ed e i capelli, si gettò con la faccia a terra, lamentandosi di esser vissuto sino a quel tempo. Egli aveva cercato di tirarmi giù  dal palco; ma il giudice lo aveva fatto allontanare con un colpo di bacchetta, la qual cosa mi intenerì, ma il Signore continuò a darmi forza”.
Secondolo era morto nel carcere di puro stento. Saturo ebbe già la sorte di morire martire. Felicita desiderava morire con gli altri; ma essendo gravida, la legge non permetteva di giustiziarla. Tutti  pregarono Dio per lei ed essa nello stesso giorno partorì una bambina. La santa si lamentava per i dolori del parto, ragion per cui uno gli disse: Tu ora ti lamenti? E come farai quando sarai divorata dalle fiere? Ella rispose: Ora sono io che patisco, ma nell’arena Gesù Cristo patirà per me e con la sua grazia io sopporterò tutto per amore suo. Nel giorno del supplizio andavano tutti al campo con tanta gioia che in tutto si rendeva evidente. Gli altri santi erano già morti sbranati dalle fiere. Santa Perpetua e santa Felicita furono denudate e avvolte dentro alcune reti per essere esposte ad una vacca infuriata. Santa Perpetua fu investita e sollevata in alto dalla fiera e cadendo indietro si mise a sedere. Vide poi la sua veste lacerata sul fianco e la tirò per coprirsi. Fu percossa di nuovo con più violenza dalla vacca. Ella si alzò in piedi e vedendo santa Felicita tutta pesta le diede la mano e la sollevò da terra. Il popolo si mosse a compassione; tuttavia furono ambedue condotte in mezzo all’ anfiteatro e qui furono uccise dai gladiatori; e così andarono con gli altri martiri a prendere possesso del Paradiso. Il 7 marzo dell’anno 203 le loro reliquie furono portate in Roma. Sant’ Agostino cita gli atti di questo loro martirio e Tertulliano e San Fulgenzio fanno glorioso elogio di queste due sante martiri. Di più la santa Chiesa ne fa memoria speciale nel sacrificio della messa.

S. Giovanni Crisostomo
Sebbene questo grande santo non sia morto per la fede e per mano di carnefice, non di meno ben può dirsi martire, avendo egli perduto la vita a motivo dei maltrattamenti sofferti per difendere l’onore di Dio e il bene della Chiesa. Nacque S. Giovanni ad Antiochia, circa l’anno 347, da una delle prime famiglie di quella città. La madre, rimasta vedova all’età di anni venti, ebbe tutta la cura di bene educare questo figlio. Gli fece studiare sotto eccellenti maestri la retorica e la filosofia. Il santo giovane dimostrava di dover fare grande fortuna nel mondo, ma egli sino dall’età di anni venti si applicò allo studio delle Sacre Scritture e alla preghiera e si consacrò tutto all’amore del Crocifisso. Per questo san Melezio, suo vescovo, gli si affezionò e lo istruì e lo fece lettore nella sua chiesa. Quindi, dopo essere stato sei anni circa ad Antiochia, impegnato a santificarsi con una vita tutta ritirata e mortificata, tuttavia credette di avere bisogno di maggior ritiro e mortificazione. Per questo si ritirò su di una montagna e di là passò ad abitare in una caverna, dove dimorò altri anni, in continue preghiere e penitenze così grandi che molto ne restò indebolita la sua salute. Per questo fu costretto a ritornare in Antiochia, dove san Melezio lo ordinò sacerdote. Conoscendo la sua grande abilità sul pulpito, gli impose la carica di predicatore nella sua chiesa. Questo incarico fu da lui esercitato con tanto frutto e piacere del popolo che dagli uditori veniva talvolta lodato in pubblico con acclamazioni clamorose e battimenti di mani. Ma il santo diceva loro: A cosa mi servono questi vostri applausi? Quello che solo desidero è che mettiate in pratica quello che vi predico. Questo è tutto l’applauso che aspetto e desidero da voi. Avvenne poi che nell’anno 397 morì Nettario, patriarca di Costantinopoli. Poiché il nome del nostro santo si era già fatto celebre per tutte quelle province, l’imperatore Arcadio, pregato dal clero e dal popolo, decise di eleggerlo come vescovo di quella città. Per questo fece venire san Giovanni a Costantinopoli e, senza manifestargli il suo disegno, lo prese nel suo cocchio e lo condusse in una chiesa fuori della città e qui lo fece consacrare dai vescovi, benché con grande ritrosia del santo. La città di Costantinopoli aveva per sua disgrazia avuto per vescovo, nello spazio di sedici anni, Nettario, uomo senza scienza e senza zelo; per questo quella grande città piena di forestieri e di eretici aveva grande bisogno di riforma. A questa riforma tutto si applicò san Giovanni. E poiché trovò molto rilassati anche i costumi del clero, il santo, che era pieno di zelo, faticò molto per riformarli, come anche ebbe da affaticarsi per correggere l’avarizia e la superbia dei grandi, che servivano all’imperatore. Per questo si acquistò molti nemici. In questo tempo in Costantinopoli capitarono alcuni individui cacciati dall’Egitto da Teofilo, vescovo di Alessandria, con il pretesto che fossero origenisti. Poiché san Giovanni li trovò innocenti, scrisse a Teofilo in loro favore e lo pregò di lasciarli in pace. Ma quello, che era uomo superbo, sdegnato con il santo perchè aveva preso la loro protezione, risolse di rovinare il nostro  e gli riuscì. Sebbene Teofilo fosse stato chiamato dall’imperatore in Costantinopoli a giustificarsi, egli, essendovi giunto, si unì con alcuni vescovi e signori della corte e molti altri del clero, nemici di Giovanni. In tal modo da reo diventò attore, poiché avendosi guadagnato anche il favore dell’imperatrice Eudossia, trovandosi essa in quel tempo sdegnata contro il santo, perché l’aveva ripresa per i denari tolti alla vedova Callitropa e per un campo tolto ad un’altra vedova, convocò un conciliabolo di 36 vescovi del suo partito in un certo luogo detto Della Quercia, dove con certe false calunnie portate contro il santo, lo fece deporre. Ottenne dall’imperatore l’ordine che san Giovanni fosse scacciato dalla sua chiesa e mandato in esilio. Il popolo, udendo ciò, circondò la chiesa e la casa, perché non gli fosse tolto il suo vescovo. Ma il santo per evitare una sedizione,  di cui già si temeva, uscì da una porta segreta e si mise nelle mani dei soldati che lo condussero in Bitinia. Nella notte del giorno seguente in Costantinopoli vi fu un grande terremoto, che tutti considerarono come un segno della divina vendetta.  La stessa imperatrice ne fu atterrita in modo che costrinse l’imperatore a richiamare nella città il santo vescovo. Fu subito spedito l’ordine che ritornasse e, a tale avviso, tutto il popolo gli corse incontro, cantando inni e  con torce accese in mano. Giunto che fu S. Giovanni alla chiesa, il popolo lo costrinse, benché con sua ripugnanza, a porsi sul trono episcopale. Teofilo, al contrario, all’arrivo del santo, insieme con gli altri del suo partito, fuggì spaventato da Costantinopoli. Il santo riprese le sue sacre funzioni  e sollecitava presso l’imperatore che si convocasse un Concilio per giustificare la sua innocenza. Ma un fatto nuovo fece mutare faccia alle cose. Nella piazza della chiesa cattedrale, detta di Santa Sofia,  era stata alzata una statua d’argento dell’imperatrice e perciò si erano fatti balli e spettacoli e rumore  tali che avevano turbato nella chiesa i divini uffici. Il santo riprese fortemente il popolo di quella irriverenza portata alla chiesa. Ma di ciò si incolpò Eudossia l’imperatrice e questa per vendicarsi si servì di Teofilo e dei vescovi nemici del santo, i quali, con il pretesto che egli aveva ripreso l’esercizio del suo vescovado senza prima giustificarsi in un Concilio, si radunarono in un altro conciliabolo e lo condannarono e lo deposero. Dopo questa ingiustissima deposizione, venne l’ordine dall’imperatore a san Giovanni che non entrasse nella sua chiesa, per cui esso uscì dalla città. Poiché era giorno di sabato andò in una chiesa di campagna a celebrare gli uffici. Ma i nemici ottennero una truppa di quattrocento soldati, che entrarono con le spade in mano in quella chiesa dove si amministrava il battesimo, così che restarono feriti alcuni preti e le fanciulle che si preparavano alla battesimo furono oltraggiate. E si giunse a tale punto d’insolenza da calpestare il sacramento dell’altare. Insomma fu tale lo sconvolgimento che le genti andarono per lo spavento a rifugiarsi nelle valli e nei boschi. Finalmente Arcadio, benché non odiasse S. Giovanni, nondimeno, spinto dalle insinuazioni di sua moglie e dei vescovi contrari al santo, gli impose l’esilio e che partisse subito. Il santo, a tale ordine sceso in chiesa, si licenziò dai vescovi suoi amici ed uscendo da una porta segreta si diede in mano ai soldati, che lo condussero, camminando di giorno e notte, senza riposo, a Cucuso, piccola città dell’ Armenia. Il santo benché fosse afflitto da una febbre terzana, dovette viaggiare senza compassione. Il viaggio durò settanta giorni, dei quali trenta ne passò san Giovanni sempre con una febbre violenta addosso. Giunto che fu a Cucuso, il vescovo di quel luogo lo alloggiò a casa sua e così trovò qualche riposo a tanti disagi patiti. Qui poi il santo non rimase in ozio. Si mise ad istruire quella gente e a sollevare i poveri, per quanto poteva. Di là scrisse più lettere per consolare i suoi ed anche per aiutare le nuove chiese fondate in Persia, cioè nella Gozia e nella Fenicia. Intanto il Papa Innocenzo primo, informato delle ingiustizie fatte a S. Giovanni si adoperò per convocare un Concilio universale, dove definitivamente si dichiarasse l’innocenza del santo. Ma i nemici impiegarono tutte le loro forze per impedirlo e lo ottennero. Arcadio, ingannato dai vescovi del partito avverso e dai suoi ministri, fece fallire il concilio. Anzi i nemici del santo, non potendo sopportare la gloria che esso si acquistava nel luogo del suo esilio, ottennero un ordine da Arcadio che San Giovanni fosse trasportato a Pitionto, città nel deserto e l’ultima dell’impero. Pertanto, dovendo partire di là, S. Giovanni fu consegnato a due ufficiali, uno dei quali, essendo uomo bestiale ed usato dagli stessi nemici per far morire il santo per la strada in quel viaggio, lo faceva camminare quando pioveva dirottamente e lo esponeva ai più grandi calori del sole, né permetteva che si fermasse nei paesi con più comodità, ma lo faceva alloggiare in villaggi ove mancava tutto. Essendo poi arrivati nella città di Cumana, nel Ponto, volle il barbaro proseguire il viaggio e giungere cinque miglia più lontano, sino alla chiesa dove era sepolto il martire santo Basilisco, già vescovo di Cumana. Presero qui alloggio in una casa vicina alla chiesa e la stessa notte apparve a san Giovanni il santo martire e lo confortò a stare di buon animo dicendogli: “Domani saremo insieme”. Il Crisostomo, dando fede all’oracolo e vedendo prossima la fine dei suoi strazi, pregò i soldati di differire la partenza fino al mattino. Non potè ottenere questo, ma appena dopo poche miglia di viaggio furono costretti a ritornare nella stessa casa, poiché videro il santo ridotto in pessimo stato. Ritornati che furono, il santo si vestì di una veste bianca. Sentendosi mancare la vita, prese il santo viatico e fatta la sua ultima preghiera, ripetendo quelle parole che aveva sempre in bocca, disse: “Gloria a Dio per tutte le cose, amen!” E rese l’anima a Dio il 14 settembre dell’anno 407, dopo sessanta anni di vita e nove anni e sette mesi circa di vescovato. Accorse subito dalle province vicine una grande moltitudine di monaci e di altre persone illustri per onorare la sua sepoltura. Pochi giorni dopo la morte di san Crisostomo, Iddio non lasciò impuniti i suoi nemici. Soprattutto nel giro di pochi giorni morì Eudossia. Non molto dopo finì di vivere anche Arcadio all’età di anni trentuno. Queste morti furono reputate effetti della divina vendetta. Tuttavia non cessò la persecuzione contro i seguaci di san Giovanni e particolarmente contro un sacerdote chiamato Tigrio ed un chierico lettore chiamato Eutropio. Dopo che  il santo fu cacciato per la seconda volta da Costantinopoli, accadde che andò a fuoco la grande chiesa di Santa Sofia e il palazzo del Senato e tra gli altri ne fu attribuita la colpa a quei due chierici. Era governatore della provincia Ottato, empio pagano. Egli fece mettere alla tortura Eutropio che era più giovane, affinché svelasse gli autori dell’incendio. Ma Eutropio, lacerato con unghie di ferro nelle coste ed abbrustolito con torce ardenti, stette forte a non infamare alcuno. Scrive Palladio che fra quei tormenti finì la vita. Quindi Ottato prese il prete Tigrio, lo fece flagellare e poi stendere sull’ eculeo a tal punto che gli restarono slogate tutte le ossa. Fu poi mandato in esilio in Mesopotamia ove lasciò la vita. La Chiesa onorò ambedue questi santi con il titolo di martiri. Nell’anno 428 si cominciò a celebrare il nome di san Giovanni Crisostomo e alla fine l’arcivescovo Proculo persuase l’imperatore Teodosio il giovane a far trasportare il corpo del santo da Cumana, dove riposava, in Costantinopoli. Il trasporto delle sacre reliquie fu di grande onore al santo, poiché tutto il popolo andò ad incontrarle. Lo stretto del mare dove passarono fu tutto coperto di barche e illuminato di torce. Quando poi giunse il sacro corpo, l’imperatore Teodosio, con gli occhi bagnati di lacrime e con la faccia dimessa sopra la cassa, domandò umilmente al santo perdono delle ingiustizie commesse contro di lui da sua madre e da suo padre. Questa traslazione avvenne il 27 gennaio dell’anno 438, passati anni trentuno dopo la morte di Giovanni.

 

 

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